L’intrusione di questo genere di trascendenza che chiamo Gaia fa esistere all’interno delle nostre vite un’incognita enorme, che è qui per restare. È forse la cosa più difficile da concepire: non esiste un futuro prevedibile in cui essa ci restituirà la libertà di ignorarla; non si tratta di un “brutto momento da lasciarsi alle spalle” a cui seguirà il rassicurante lieto fine di un “problema risolto”. Non saremo autorizzati a dimenticarla. Dovremo, d’ora in poi, rispondere di ciò che facciamo di fronte a un essere implacabile, sordo alle nostre giustificazioni. Un essere che non ha portavoce, o, piuttosto, i cui portavoce si trovano esposti a un divenire mostruoso.
Isabelle Stengers, Nel tempo delle Catastrofi. Resistere alla barbarie a venire, Rosabelle & Stengers, 2021
La Gaia di Stengers, tuttavia, non è la stessa entità evocata da Latour. Innanzitutto è il nome di un evento, “l’intrusione” nella nostra storia di un tipo di trascendenza che non possiamo più ignorare: l’orizzonte cataclismatico definito dal riscaldamento globale antropogenico. Gaia è l’evento che mette in pericolo il nostro mondo, l’unico che noi abbiamo, e dunque… […]
Gaia è l’appello a resistere all’Antropocene, a imparare a vivere con esso ma contro di esso, contro noi stessi. Insomma, siamo noi il nemico – noi gli Umani. L’antropocene segna in verità la fine dell’Umano e l’inizio di un dovere quello che Stengers chiama sognare altri sogni.
Deborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire?, nottetempo 2017
La stessa idea di una sottrazione dell’elemento umano come ciò che permetterebbe il ristabilirsi edenico del pianeta è il centro del Movimento per l’Estinzione volontaria degli umani, creato all’inizio degli anni ‘90, ispirato in parte all’Ecologia Profonda, che predica la nostra scomparsa graduale attraverso l’astensione dalla riproduzione.
Alan Weisman, Il mondo senza di noi, Einaudi, 2007
Siamo tutti licheni; per questo possiamo essere spazzati via dalle rocce dalle Furie, che ancora esplodono per vendicare i crimini contro la terra. In alternativa, possiamo unirci alle trasformazioni metaboliche tra e fra rocce e creature per vivere e morire bene.
Donna Haraway, Chthulucene, Sopravvivere su un pianeta infetto, NERO, 2019
Riconosciamo che, in qualche modo, gli Umani (nel senso di Latour) hanno già perso la guerra; il loro mondo è già finito. I Terreni, al contrario, non possono perdere la guerra – nei due sensi, imperativo e constatativo, di questo “non potere”. Resta da vedere quanti esseri umani resteranno sul campo terrestre, nei decenni a venire.
Deborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire?, nottetempo 2017
Che differenza c’è tra mutazione e cambiamento? Quale percezione hanno, in tal proposito, le nuove generazioni rispetto a questo mondo sconvolto che non li coinvolge? E ancora di più: le nostre vecchie parole riescono davvero a mettere a fuoco ciò che di completamente nuovo accade (è già accaduto)?
Glenn Albrecht cerca a lungo un termine che esprima “una emozione cronica, situata e dolorosa, provata davanti a un cambiamento ambientale negativamente percepito”, in cui sia esplicito il richiamo alla dimensione domestica. All’inizio parla di “placealgia” (riferendosi al “place” e alla “algia” o dolore), poi si rivolge al solacium, ossia alla privazione di consolazione, di conforto in momenti difficili, di sollievo da una forma di disagio e di abbandono.
La definizione si affina col tempo: “La solastalgia si riferisce tanto alla perdita di un luogo naturale unico causato dal riscaldamento climatico che alla trasformazione delle città e altri complessi urbani dalle forze dello sviluppo”.
Ma cos’è, propriamente, questo nuovo? In che senso è mostruoso? È mostruoso, su questo punto la scelta di Motus è insistita, perché “parla” una lingua del tutto incomprensibile. C’è una nuova lingua, e noi (che siamo il passato) non riusciamo a capirla. Non si capisce, o meglio, ci si vuole confondere. E ancora Cassandra entra in scena mugolando dei suoni che sembrano essere linguistici, ma forse non lo sono, un balbettio sonoro né lingua né non lingua. […] In questo senso, e le sonorità prolungate della chitarra ce lo confermano, è la lingua misteriosa che parlerà l’umanità dopo che tutto è bruciato. Una lingua terra terra, né umana ma nemmeno non umana, polverosa e umile. […]
Ecco, il nuovo che si muove sul palcoscenico è fastidioso, violento, incomprensibile, oltre le recriminazioni e le accuse. Un nuovo che parla una lingua che non capiamo, perché noi spettatori siamo diventati quella stessa incomprensione. In questo senso è la lingua del reale, che è reale proprio perché incomprensibile.
Il reale si mostra appunto quando ci accorgiamo che il mondo che abitavamo non era altro, in realtà, che un mondo di cartapesta. Ora c’è solo la cenere, e i corpi. Ma il terreno è sgombro. Qualcosa può cominciare.
Felice Cimatti via fatamorgana.it
Irreversibile il tempo a cui l’uomo destina la terra. Irreversibile il mare che s’innalza. La plastica nella roccia. Le polveri sottili nell’aria. Irreversibile il cemento. Il corallo sbiadito. Il ghiacciaio dissolto. La foresta distrutta. Irreversibile il movimento degli esseri umani in fuga da cataclismi naturali, aridità, siccità. Povertà. Fame.
Irreversibile l’acqua che mancherà, che più non placherà la nostra sete. Irreversibile l’acqua privatizzata, che speculerà avidamente sul nostro bisogno.
In “Mad Max: Fury road” la fine del mondo in questione è la fine del mondo umano, come risultato di un processo di devastazione ontologica dell’ambiente (devastazione o artificializzazione integrale del Pianeta) con effetti disumanizzanti sui sopravvissuti.
“Mentre il mondo crollava, ognuno di noi a modo suo era a pezzi”. Risorse idriche, sementi, carburante: i beni in nome dei quali nella dimensione post-apocalittica di George Miller (n. 1945) si sacrificano vite umane, laddove l’unico posto desiderabile è il Luogo Verde, una sorta di Eden che esisteva, in un tempo ormai remoto – e ora, soltanto nella memoria di anziane donne che lo ricordano. Andrà ricostruito, presso alcune formazioni di roccia punteggiate di verde, ultimo baluardo di speranza.
L’antropologo Marshall Sahlins scrive: “In molte regioni del Pianeta, gli umani e i non umani non sono visti come esseri che si sviluppano in mondi incommensurabili secondo princìpi distinti. L’ambiente non è visto come una sfera oggettiva e autonoma: piante e animali, fiumi e rocce, meteore e stagioni non stanno in una stessa nicchia ontologica definita dalla sua non umanità”. L’aspetto positivo è che le piante e gli animali importanti per gli umani, come anche certi aspetti del paesaggio, i corpi celesti, i fenomeni meteorologici, perfino alcuni artefatti, sono anch’essi esseri viventi, persone con attributi umani, che a volte, in sogni o visioni, ne assumono perfino l’apparenza. Al pari degli esseri umani, queste altre specie di persone hanno anime o sono animate da spiriti, da qui la loro coscienza, intelligenza, intenzionalità, mobilità ed emotività, come anche la loro capacità di comunicare tra di loro e con le persone. [Si tratta] di un cosmo [come ci riferiscono gli autoctoni dell’America del Nord o gli amerindi brasiliani dell’Amazzonia] composto da una umanità immanente dove […] “i rapporti tra le persone umane e ciò che chiamiamo natura assumono la qualità di una relazione sociale.”
Marshall Sahlins Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana, Elèuthera, Milano, 2010
L’inoperosità e la contemplazione sono “gli operatori antropogenetici, che […] rendono il vivente disponibile per quella particolare assenza di opera che siamo abituati a chiamare politica e arte. Il capitalismo contemporaneo tende a ridurre la prassi in produzione non solo nelle università: occupa il cittadino a cercare reddito e consumare merci; trasforma il lavoro linguistico (l’operatore al call-center, l’educatrice all’asilo, il rider in bici) nell’equivalente disperato della catena di montaggio. La “mancanza di opera” è un’espressione polemica verso uno dei mantra contemporanei, poiché indirizzata esplicitamente “contro l’enfasi ingenua sulla produttività e sul lavoro”.
Giorgio Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, 2015, via fatamorgana.it
Nelle sue Confessioni, Sant’Agostino ammoniva: “E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi”, tanto che ad oggi, questo trascurare se stessi, riecheggia cupamente non più (non solo) come un ascolto mancato dell’anima e del divino, ma soprattutto come una dimenticanza rispetto a ciò che l’umanità realmente è, ovvero la parte minore (nonché la minaccia) di un cosmo, di una biosfera, di un mondo, di una terra.
La geografia. Non come disciplina ortopedica del disordine naturale ma come pratica dell’immaginario, come tensione esplorativa dell’invisibile.” Ciò che davvero non può mancare è “la visione, quel qualcosa che in un geografo nasce dalla contemplazione di un paesaggio irriducibile, dal potere evocativo di ciò che nella mappa non c’è ancora, dalle porzioni vuote del foglio.
Matteo Meschiari, Landness, Una storia geoanarchica, Meltemi 2022
La realtà geografica che identifichiamo con l’Italia è stata nei millenni estremamente mobile per ragioni tettoniche, morfogenetiche, climatiche, ma in ultimo anche antropiche e possiamo dunque affermare, con rigore scientifico, che Homo sapiens sta contribuendo a cambiare il clima e pertanto anche la conformazione della superficie terrestre: non è un fenomeno recente, ma non era mai accaduto in tempi così rapidi e con conseguenze così vaste.
Telmo Pievani e Mauro Varotto, Viaggio nell’Italia dell’Antropocene, La geografia visionaria del nostro futuro, ed. Aboca
Anthropocene si basa sulla ricerca del gruppo internazionale di scienziati Anthropocene Working Group impegnato nel raccogliere le prove del passaggio dall’attuale epoca geologica – l’Olocene, iniziata circa 11.700 anni fa – all’Antropocene. La ricerca è volta a dimostrare che gli esseri umani sono diventati la singola forza più determinante sul pianeta.
Il fotografo Edward Burtynsky e i registi Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier hanno intrapreso un viaggio intorno al mondo, in tutti i continenti ad eccezione dell’Antartide, per testimoniare i segni irreversibili prodotti dall’attività umana sul pianeta.
Qui non c’è acqua ma soltanto roccia
Roccia e non acqua e la strada di sabbia
La strada che serpeggia lassù fra le montagne
Che sono montagne di roccia senz’acqua
Se qui vi fosse acqua ci fermeremmo a bere
Fra la roccia non si può né fermarsi né pensare
Il sudore è asciutto e i piedi nella sabbia
Vi fosse almeno acqua fra la roccia
Bocca morta di montagna dai denti cariati che non può sputare
Non si può stare in piedi qui non ci si può sdraiare né sedere
Non c’è neppure silenzio fra i monti
Ma secco sterile tuono senza pioggia
T. S. Eliot, La terra desolata
Si comincia a parlare di negazionismo climatico sistemico negli anni 90 del 1900 negli Stati Uniti, con la Global Climate Coalition, formata da compagnie petrolifere, dalla Camera di commercio e dall’Associazione Nazionale delle industrie manifatturiere statunitensi. Ma già dagli anni ’70 e ’80, Exxon, Shell e altre aziende di combustibili fossili sapevano tutto del cambiamento climatico. La macchina del negazionismo climatico è composta dunque da industrie che hanno finanziato esperti negazionisti, think tank e persino istituti di ricerca, tanto che, come descritto nel libro I bugiardi del clima di Stella Levantesi, si può parlare di un coinvolgimento capillare composto da “lobby negazioniste, politica, giornali, tv, social media e persino le aziende del Big Tech”.
La crisi climatica ha impatti sempre più gravi anche in Italia, ma non riceve ancora la giusta attenzione mediatica. Le notizie che i principali TG e quotidiani italiani dedicano al clima sono scarse e sporadiche, trascurano il legame tra il riscaldamento del pianeta e gli eventi estremi che colpiscono anche il nostro Paese, e omettono le responsabilità dell’industria dei combustibili fossili.
Dall’altro lato, i nostri media offrono sempre più spazio alle pubblicità delle aziende inquinanti, che in questo modo riescono ad esercitare un’enorme influenza sul sistema dell’informazione, ritardando gli interventi di cui abbiamo urgente bisogno.
Greenpeace Italia via Instagram (18/04/23)
La causa di questo collasso ecoclimatico è chiara. Sono passati infatti decenni da quando gli scienziati hanno iniziato ad avvertirci del pericolo di utilizzare i combustibili fossili. Nonostante questo, il Governo italiano investe in energia fossile molto di più rispetto a quanto faccia con energie rinnovabili. Nel 2021 in Italia sono stati stanziati 41,8 miliardi di euro per le fonti fossili. Ben 7,2 miliardi di euro in più rispetto all’anno precedente. Nel 2022 i numeri sono ancora maggiori. Tra il 2019 e il 2021 l’Italia ha fornito 2,8 miliardi all’anno solo in finanza pubblica per i combustibili fossili piazzandosi al sesto posto mondiale tra i finanziatori dell’energia fossile, superando Arabia Saudita e Russia. In poche parole stiamo finanziando la nostra condanna a morte. Stiamo finanziando un suicido collettivo.
Ultima Generazione via website
Il “falso equilibrio” dell’informazione non fa altro che reiterare e alimentare l’idea fuorviante che il cambiamento climatico, anche se esiste, non è poi così grave, che non riguarda l’Italia, che gli eventi meteorologici estremi e i fenomeno causati dall’aumento della temperatura come quelli che si stanno verificando in tutta la penisola e in molte altre aree del mondo non vi hanno nulla a che fare.
Stella Levantesi via internazionale.it
Come si racconta una catastrofe? La si ammira, la si scorge, la si combatte, la si subisce, la si nega, la si elude? In base a come i dispositivi di narrazione scelgono di raccontare la crisi climatica, il rapporto con essa da parte di ogni singolo individuo, inevitabilmente, in modo diretto e conseguente, cambia.
È interessante fermarsi a riflettere sull’immagine del fiume Po che possiamo trarre dal “paesaggio mediatico”, per utilizzare un efficace termine messo a fuoco dall’antropologo Arjun Appadurai nel volume Modernità in polvere. La visibilità mediatica del fiume Po è innegabilmente legata, da decenni, alle manifestazioni estreme. […] La percezione del fiume (ma non solo: si potrebbero argomentare discorsi simili anche per altri elementi geografici) è dunque quasi soltanto emergenziale.
Davide Papotti via doppiozero.com
Cosa possono fare gli scrittori di fronte a un processo che si svolge su una scala così vasta, immane, inabbracciabile? Come possono raccontare il disastro climatico in una chiave che non sia soltanto quella “postcatastrofica”?
Forse possono cantare la mappa. Scegliere un territorio e raccontare com’era, com’è e come sta per diventare.
Oggi gran parte del pianeta è in bilico tra acqua e terra e sull’orlo della catastrofe. Il basso ferrarese lo è sempre stato. Questo mondo di confine è sempre stato estremo. Ed è un estremo avamposto.
Moira dal Sito, Quando qui sarà tornato il mare, Alegre, 2020
Narrare la crisi del pianeta è ripercorrere il disegno di alcune grandi fratture che caratterizzano l’Antropocene, cioè l’era nella quale le azioni dell’uomo hanno avuto come prospettiva consapevole la progressiva alterazione degli equilibri ecologici. […] L’antologia, e questo mi sembra sia il merito indubbio del curatore, non si adagia, nelle scelte e nell’impianto, su un’idea predefinita di ecocritica: non è un orizzonte disciplinato a suggerire i criteri, ma il tumultuante – e vitalissimo e irriducibile a paradigmi – mondo di una narrazione che rappresenta, con libertà inventiva e variabilissima, il rapporto dell’uomo con il suo ambiente e con le altre specie.
Antonio Prete via doppiozero.com
È questo il modo in cui il mondo finisce
È questo il modo in cui il mondo finisce
È questo il modo in cui il mondo finisce
Non già con uno schianto ma con un piagnisteo.
Come T. S. Eliot presagiva cento anni fa nel suo Gli uomini vuoti, la catastrofe, con il suo avanzare, non fa rumore, ma solo un sibilo appena percettibile. Accogliere la “Cara Catastrofe” dunque, è la postura che alcuni studiosi invitano ad assumere dinnanzi ad essa: senza smentirla, senza privarla della sua portata, i Terreni (e non gli umani) non possono che essere un popolo irrimediabilmente minore, un popolo che non confonderebbe mai un territorio con la Terra. Potrebbero essere il popolo che manca di cui parlano Deleuze e Guattari, il popolo minore di Kafka e Melville, la razza inferiore di Rimbaud, l’Indio che il filosofo diviene – il popolo a venire, capace di opporre “una nuova resistenza al presente” e di creare così “una nuova terra”, il mondo a venire.
Una nascita senza genitori. Immaginate un mostro che divora chi gli ha dato la vita. O ancora un processo in cui, gli uni, morendo, non sanno a chi danno la vita, gli altri, nascendo, ignorano a chi l’hanno tolta.
Artavazd Pelesjan via doppiozero.com
Questa fine del (nostro) mondo già avvenuta – o, meglio, tuttora in corso – ci permette di passare dall’attitudine di una credenza mistica e astratta a un’apocalisse annunciata ad una credenza politica e attiva all’interno di una situazione concreta e presente. Non si tratta, per così dire, di credere al collasso (come crediamo in modo cieco e fideistico alla crescita o all’innovazione tecnologica) ma di credere nel collasso (in quanto condizione di incontro e mobilitazione collettiva di fronte a problemi e opportunità emergenti).
Jacopo Rasmi, Collassologia, Asterios, 2020
Ciò che rende ancora più difficile pensare la catastrofe è il carattere “iperoggettivo” dei cambiamenti climatici. “Iperoggetti” è il nome dato da Thimoty Morton (2010/2013) a ciò che egli considera un tipo relativamente nuovo di fenomeni e/o entità che mettono in discussione la nostra percezione del tempo e dello spazio: sia perché il loro modo di distribuirsi sul pianeta non consente la nostra immediata comprensione, sia perché persistono e producono effetti la cui durata eccede enormemente la scala della vita individuale, della vita collettiva e, verosimilmente, della durata della specie.
Chakrabarty, Human agency in the anthropocene, 2012
Niente ha la giusta misura. Non si tratta più solamente, dunque, di una crisi nel tempo e nello spazio, ma di una feroce corrosione del tempo e dello spazio.
Deborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire?, nottetempo 2017
Occorre riatterrare. Ma dove, su quale terra? Bruno Latour indaga le risposte possibili attraverso il suo ultimo esperimento: un atelier collettivo e partecipato.
Re-immaginare il pianeta vuol dire cercare nuovi linguaggi, nuove forme di informazione e comunicazione che aiutino a ripensare il rapporto tra mondo umano e non umano. Quattro puntate radiofoniche dedicate alle parole chiave del recente dibattito sul riscaldamento globale: interdipendenza tra essere umani e natura, globo-pianeta, abitare la Terra.
Il diritto di avere diritti è una lotta in corso.
Cosa dice il nuovo Rapporto di sintesi sul clima dell’IPCC (marzo 2023), il gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico. E se si cominciasse a parlare di omicidio ecologico?
Secondo Jojo Mehta, presidente di Stop Ecocide Foundation, la definizione ecocidio “offre uno strumento giuridico praticabile che corrisponde a un bisogno reale e urgente nel mondo”. Ovvero la lotta ai cambiamenti climatici. L’obiettivo è ottenere il riconoscimento di questo crimine davanti alla Corte penale internazionale.
Ilaria Sesana via altreconomia.it
Così come un giorno abbiamo avuto orrore del vuoto, oggi proviamo ripugnanza a pensare il rallentamento, la regressione, la ritirata, la limitazione, la frenata, la decrescita, la discesa – la sufficienza.
Deborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire?, nottetempo 2017
Futuro Fantastico è l’inimmaginato, la prova collettiva inesplorata, i cicli di proteste represse, i tentoni della coscienza, le profezie ardite: siamo noi che non ci saremo, che proviamo a dare forma, a re-immaginare la nuova atmosfera.
Per come lo concepisco, il realismo capitalista non può restare confinato alle arti o ai meccanismi propagandistici della pubblicità. E’ più un’atmosfera che pervade e condiziona non solo la produzione culturale, ma anche il modo in cui vengono regolati il lavoro e l’educazione, e che agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l’azione.
Mark Fisher, Realismo capitalista, NERO edition, 2018
I falsi profeti vi hanno timorosamente informati che il XXI secolo segna la fine dell’innovazione e la morte del progresso. Vi hanno detto che è “la lenta cancellazione del futuro”, quando in realtà la lentezza sta cancellando *un* futuro, un’eruzione di distruzione creativa che ha dato origine a tutto quanto è venuto dopo. Abbiamo chiuso con le vecchie modalità codificate dell’immaginazione (sonora). Nascono nuove metafore, la nostra sinestesia si trasforma.
Kit Mackintosh, Auto-Tune Theory, NERO edition, 2023
Ciò che rende ancora più difficile pensare la catastrofe è il carattere “iperoggettivo” dei cambiamenti climatici. “Iperoggetti” è il nome dato da Thimoty Morton (2010/2013) a ciò che egli considera un tipo relativamente nuovo di fenomeni e/o entità che mettono in discussione la nostra percezione del tempo e dello spazio: sia perché il loro modo di distribuirsi sul pianeta non consente la nostra immediata comprensione, sia perché persistono e producono effetti la cui durata eccede enormemente la scala della vita individuale, della vita collettiva e, verosimilmente, della durata della specie.
Chakrabarty, Human agency in the anthropocene, 2012
Coltivare un immaginario fuori da quello mainstream, sviluppare un corpus di immagini in cui si cerca di far leva su un sistema di corrispondenze tra terre, bestie e umani, esercitarsi all’invenzione di soluzioni creative, è un modo molto concreto per offrire da subito un’alternativa ai pensieri dell’esclusione, del razzismo, del populismo, del nazionalismo, della sopraffazione.
Matteo Meschiari, Antropocene fantastico, Armillaria 2020
Il cambiamento climatico resiste alla narrativa, eppure è necessario un resoconto di ciò che sta accadendo. Sono in gioco milioni di vite e più di un milione di specie. E ci sono decisioni da prendere, anche se non è chiaro chi, esattamente, le prenderà.
Elizabeth Kolbert, Climate change from A to Z , New Yorker 2022
Occorre non dimenticare che l’immaginario non è un semplice istinto, è un vero e proprio metodo, è una pratica, una cultura, una pedagogia, un’educazione cognitiva. E ovviamente è anche un fare politico, una forma di resistenza.
Matteo Meschiari, Neogeografia, Milieu edizioni, 2019
Nelle Lezioni Americane Italo Calvino introduce la quarta lezione sulla visibilità citando un verso del Purgatorio di Dante: “poi piovve dentro a l’alta fantasia” poiché “la fantasia è un posto dove ci piove dentro”.
E se, come oggi, in estrema relazione con la crisi ambientale, non piovesse più – dentro la fantasia?
Re-immaginare il pianeta vuol dire cercare nuovi linguaggi, nuove forme di informazione e comunicazione che aiutino a ripensare il rapporto tra mondo umano e non umano. Quattro puntate radiofoniche dedicate alle parole chiave del recente dibattito sul riscaldamento globale: interdipendenza tra essere umani e natura, globo-pianeta, abitare la Terra.
Come la psicoanalisi si prefigge di ricostruire la situazione traumatica originaria al fine di provocare la liberazione del materiale rimosso, così ora noi stiamo precipitando nel nostro passato archeopsichico, riscoprendo gli antichi tabù e gli istinti primordiali rimasti sopiti per migliaia di anni. Il pensiero della brevità della singola vita umana è fuorviante. Ognuno di noi ha la stessa età dell’intero regno biologico e il nostro flusso sanguigno è immissario dell’immenso oceano della sua memoria collettiva.
J.G. Ballard, Il mondo sommerso, Feltrinelli 1962.
I Bianchi non sognano lontano come noi. Dormono molto, ma sognano solo se stessi.
Kopenawa e Albert, 2010, via Deborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire?, nottetempo 2017
Si trova nell’introduzione del libro di Laura Ogden Perdita e meraviglia alla fine del mondo una citazione di Isabelle Stengers: “Meraviglia significa sia essere sorpresi sia albergare domande”. Nel suo libro, la Ogden, avanza un approccio sperimentale alla meraviglia, che definisce meraviglia speculativa, ovvero la curiosità verso altri assemblaggi di vita. “Il presente” aggiunge “è un momento di perdita, ma è anche un momento in cui le comunità (di persone e di altri esseri viventi) cercano di scendere a patti con essa, di difendere il proprio posto e diventare qualcosa di nuovo nel processo. L’oscurità del ventre materno, come dice Rebecca Solnit, è un’oscurità tanto piena di incertezza quanto della possibilità di un futuro diverso.”
Credo che il ruolo di una simulazione sia preparare le nostre menti e migliorare la nostra immaginazione collettiva, in modo da essere più flessibili, adattabili, agili e resistenti quando ci troveremo ad affrontare l’incredibile.
Jane McGonigal, Immagina. Giochi, scenari e simulazioni per prepararsi al futuro e coltivare l’ottimismo urgente, ROI Edizioni, 2022
Anche a partire dalla celebre frase di Mark Fisher “Senza il nuovo, quanto può durare una cultura? Cosa succede se i giovani non sono più in grado di suscitare stupore?“, la compagnia Motus ha generato una performance-spettacolo-avventura collettiva: “L’idea di nuovo cominciamento, anche senza meta precisa, rispetto alle richieste di brillante performatività e iper-efficienza imposte alle nuove generazioni, ci sembra un bel modo per rimettere in gioco alcune attitudini desuete, come perdere tempo e mettersi in cammino, vagare per zone marginali e inesplorate da cui, appunto, ricominciare.”
Il nuovo definisce se stesso come risposta a quanto già stabilito; allo stesso tempo, quanto è già stabilito deve riconfigurarsi in risposta al nuovo. Secondo Eliot, l’esaurimento del futuro ci lascia anche senza passato: quando la tradizione smette di esser contestata e modificata, smette di avere senso. Una cultura che si limita a preservare se stessa non è una cultura.
Mark Fisher, Realismo capitalista, NERO edition, 2018
Il festival Periferico è uno dei principali progetti del collettivo Amigdala (Modena) ed è dedicato alle connessioni tra arti performative, comunità locali e tessuto urbano. Una delle domande fondamentali da cui muove la programmazione del festival riguarda i modi e le possibilità dell’arte di prendere parola nel regime del reale.
Nella loro ultima edizione del festival, chiamata “Presente!”, hanno lavorato a partire dai pensieri dell’antropologo Appadurai, il quale identifica tre dinamiche che ritiene fondanti per il benessere delle comunità: poter immaginare, avere aspirazioni e sviluppare una democrazia profonda.